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LA VERA STORIA DEL MO'ED DI PIOMBO

2 del mese di shevat dell'anno 5553

Data: 2023-01-24
Autore: Gherush92 Committee for Human Rights

Oggi, 24 gennaio 2023, ricorrono i 230 anni del Mo'ed di Piombo.
Ricordiamo i rivoltosi e i liberatori del Ghetto di Roma.
Gherush92


LA VERA STORIA DEL MO'ED DI PIOMBO
Ghetto di Roma 1775-1798

SPERANZE DI EMANCIPAZIONE
Un vento gelido da un cielo di piombo, come solo nel mese di shevat può accadere, in questa città prigione, nel cuore del ghetto di Roma, da più di due secoli serrati, tormentati e umiliati, noi cenciosi e logori, deicidi, odiati e odiosi, feccia di questa umanità cristiana a cui non appartenere è unico privilegio. La morte è di gran lunga una liberazione dalla conversione coatta, dal tradimento della tua stessa gente e perfino del tuo D.o. Ha un solo nome il nemico del giudeo ed è il cristianesimo, sono i cristiani, ossessionati da oltre mille anni da noi maledetti Farisei, ipocriti, vipere, assassini di quel loro jeshu. Noi non l’abbiamo riconosciuto e per questo, da secoli, scontiamo, vivendo e morendo, questa nostra estraneità al loro salvatore.

Rinnegare mai, lottare con tutti i mezzi, la rabbia, l’odio contro il nemico spietato e vile. Ormai sono mesi che fermento e inquietudine per le notizie che giungono da oltralpe si sono fatte azione, qui dentro il ghetto di Roma. La rivoluzione in Francia sancisce e rende: “tutti i cittadini liberi, uguali e con pari diritti”; finalmente anche fra noi c’è chi crede che la ghigliottina stia facendo giustizia. La rivoluzione ci sembra l’unico mezzo per ottenere la libertà, non può più essere censurata dai timori dei benpensanti, dagli interessi dei maggiorenti e dai ricatti dei persecutori; la rivoluzione si deve fare con ogni mezzo, vita compresa.

Da Livorno arrivano notizie di minacce e aggressioni alla Comunità, pare si siano salvati pagando una forte somma di denaro; vicino Ferrara gli ebrei sono “insultati, malmenati, bastonati, presi a sassate”; ovunque nello Stato Pontificio si procede alla confisca e alla distruzione dei libri ebraici; a Ferrara l’Inquisizione ordina che siano spezzate le lapidi del cimitero ebraico e proibisce di metterne delle nuove.

Storie dolorose, mille volte già viste. I cristiani, quando su di loro incombe un pericolo, sanno bene contro chi rifarsi: il popolo ebraico sconta qualsiasi cosa con attacchi a singoli, a gruppi o a comunità intere. E, certamente, ora che la rivoluzione disprezza e mette in discussione l’autorità del papa, questo papa Pio VI, maledetto sia, non rimarrà inerme a guardare. Lui sa, come noi sappiamo, che molti ebrei sono filo-francesi, giacobini e rivoluzionari. Come potrebbe essere altrimenti? Chi potrebbe, ingenuamente, pensare che tra la scelta di vivere liberi e quella infame di essere oggetto prediletto dell'odio e del disprezzo del tuo oppressore, si possa optare per quest'ultima senza nemmeno desiderare di combattere per la libertà?

Per quale motivo - se non per un istintivo odio verso il nostro popolo e per l'idea ossessiva che noi ebrei siamo ispiratori e fedeli sostenitori di quella “filosofia (illuminista) piena d'inganni che sotto un nome onesto nasconde la propria empietà” - questo papa, appena salito al soglio pontificio nel 1775, emette il famigerato Editto sopra gli ebrei? Ispirato dalla ripugnanza verso il popolo deicida, incalzato dalla paura delle idee illuministe, Pio VI, maledetto sia, non solo riprende ma amplia le restrizioni codificate a partire da Paolo IV: risultato, ben 44 articoli di divieti, umiliazioni, impedimenti, l’intento è di infierire sempre di più su questa feccia colpevole. In particolare, il papa inasprisce gli odiosi articoli sui battesimi forzati, proseguendo quella pratica spregevole teorizzata da Benedetto XIV secondo il principio del Favor fidei in base al quale, il battesimo forzato dei bambini ebrei, poteva essere perseguito “in difesa e in favore della vera fede.”

Noi tutti, qui nel ghetto, non possiamo dimenticare il caso della famiglia Terracina, avvenuto nel 1783, a pochi anni dalla benedetta rivoluzione. Quei due bambini, Angelo e Sara, finirono a forza nella casa dei catecumeni, vennero convertiti e non li rivedemmo mai più. Sto parlando di oblazione, una pratica in uso nella Roma cristiana e papalina ancora fino ad oggi, bambini appena nati rubati alle famiglie e battezzati in stato di incoscienza finiscono nella casa dei catecumeni. Storie di ordinaria follia queste, ma sperare che ci si possa abituare a sopportare un tale giogo, una così fosca oppressione, che si arrivi a divenire loro servi, ossequiosi per giunta - perché blandirli e onorarli è il solo scampo da una morte certa - questa è idiozia allo stato puro. L’oppresso che anela a rimanere tale offende e denigra chi vuole ribellarsi, opporsi, sollevarsi e tradisce l’inviolabile principio di libertà che il Creatore, ci ha così ben chiarito nel primo dei comandamenti “Io sono il Signore tuo D.o che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa della schiavitù”.

Sapere che già da due anni i nostri fratelli ebrei francesi, lottando, si sono emancipati e che la loro rivoluzione li ha resi cittadini liberi, uguali e con pari diritti, e venire a conoscenza di ciò che sta avvenendo in altri stati europei come l’Austria, il Ducato di Toscana, il Piemonte - dove moderate aperture liberali sono messe in atto dai governanti - spinge la maggior parte di noi, qua nel ghetto, al desiderio di lotta: quasi non è importante il risultato, il solo pensare alla rivoluzione è il godimento massimo.

Sto parlando per me e per molti miei compagni, bottegai, piccoli artigiani, venditori di cenci, scrivani, sarte, madri e padri, figli e figlie. Fra questi i vecchi ricordano bene che nel 1775 l’editto papale fu rafforzato dalla maligna volontà del pontefice di far ristampare quell’operetta infamante intitolata Ristretto della vita e del martirio di san Simonino fanciullo di Trento, perché il popolo romano e cristiano non dimenticasse quanto sono odiati questi infidi giudei, assetati di sangue cristiano.


L’ANTEFATTO
Nei giorni precedenti il 2 del mese di shevat del 1793 la tensione era altissima, dentro e fuori del ghetto. Sia il papa che il suo popolo sapevano bene che noi eravamo pronti ad intervenire e ad accogliere i francesi. Non so come era fuoriuscita la notizia che uno dei nostri, Pellegrino Ascarelli, che aveva l’appalto per la fornitura delle uniformi delle milizie, nascondeva nei suoi magazzini casse piene di armi. Ascarelli, suo suocero e il rabbino Modigliani si precipitarono di corsa dal cardinale Zelada e tanto fecero che lo convinsero che si trattava solo di berretti e stivali.

Avevamo anche raccolto del denaro per la rivolta, motivo per cui vennero arrestati i maggiorenti della comunità, rilasciati solo dopo il pagamento di una multa di 100 mila scudi. Non c’erano più notti, si dormiva a turni, discussioni accesissime su come e quando, anche i giovanissimi avevano i loro compiti, chi era con noi e chi contro di noi. Ma il nemico non era solo fuori del ghetto: le autorità della comunità, quelli che rappresentano l’organo esecutivo del governo del ghetto, le famiglie più ricche insomma, erano decisamente controrivoluzionarie, in questo non dissimili dal nemico comune, il popolo cristiano di Roma e il suo sovrano Pio VI, maledetto sia. Andavano in giro invitandoci a ragionare, a mantenere la calma, sparlavano dei francesi chiamandoli iniqui, profetizzavano - poveretti! - che non reagire, non sostenere la rivoluzione, frenare le lingue, imbrigliare i desideri, rimanere servi serventi del papa e dei suoi, ci avrebbe salvati. Loro, proprio loro, i nostri aguzzini ci avrebbero difesi, magari chissà, chiudendoci per i secoli a venire in questo letamaio dove ormai siamo così ammassati e così miseramente rassegnati da non renderci quasi più conto che il mondo non è questo disgraziato quadrilatero malsano.

L’ebreo del ghetto è basso di statura a causa della malnutrizione, ha il sistema nervoso rovinato per la non-vita che è costretto a vivere senza prospettiva di miglioramenti e, anzi, se non sta bene attento a come si comporta coi cristiani, sprofonda ancora di più nella palude putrida. Sterilità, malattie, superstizioni, morti premature, fame, miseria. Durante l’inverno neanche l’amore di tuo marito ti riscalda e d’estate pidocchi e cimici se la godono assai qui da noi altri; se piove troppo e il fiume s’incapriccia rimaniamo con l’acqua nelle scarpe, per giorni, ecco cosa hanno prodotto tre secoli di ghetto. Il paradosso è che questo maledetto carcere ci è così familiare che molti di noi lo considerano una salvezza e una protezione: ci tengono prigionieri ma almeno non ci uccidono, ci vietano di lavorare, ma se non altro non ci torturano, ci vessano con le tasse, ma almeno non ci deportano, ci costringono a sentire la messa di shabat ma per lo meno siamo vivi, ci battezzano a forza ma se non altro la sera, quando al tramonto ci sbarrano i portoni alle spalle, possiamo tornare alle nostre stamberghe. Ecco a quali perversità porta la paura, il terrore di non rivedere il sole domani, l’angoscia che ti strappino i tuoi figli; solo immaginare che ti lasceranno vivo - anche se schiavo, reietto, disprezzato - quasi ti rende felice, ti fa amare il tuo boia. Hanno logorato la nostra consapevolezza di vivere.

Ma le notizie della rivolta dei popoli per la libertà porta, infine, un ritorno di vitalità anche qui da noi, gli ebrei di Roma, 3500 anime derelitte fra le quali ora serpeggia un lampo di speranza, a parte quei poveri mentecatti dei nostri governanti che per paura, calcolo o interesse desistono dalla lotta. Noi miserabili non abbiamo scelta: combatteremo fino alla libertà.

Mi tornano in mente gli eroi del nostro popolo che non scelsero mezze misure, che vollero vivere secondo i loro desideri e praticare la nostra spiritualità, non rinunciarono a mangiare la matzà con le erbe amare la notte del seder di Pesach, a vestire abiti puliti di shabat, a digiunare di kippur, a cucinare con l’olio invece che col lardo, a recitare le preghiere secondo la legge di Mosè, a circoncidere i loro figli nell’ottavo giorno. Uomini e donne che bruciarono vivi nei roghi dell’Inquisizione invocando il nome dell’Altissimo, che si tolsero la vita in massa per non cadere nelle mani assassine del nemico, che torturati quasi a morte preferirono sfracellarsi la testa sui muri delle prigioni piuttosto che abiurare.

Bisogna essere proprio obnubilati per non voler capire che questi ebrei persistono a praticare la diversità, perché evidentemente per loro è goduria e felicità, e finché anche un solo ebreo ci sarà al mondo che vivrà da ebreo, l’universalismo ecumenico omicida non sarà mai veramente universale.

Quello shabat, noi compagni organizzammo un kiddush all’aperto, turni di guardia ai portoni con cambi ogni due ore per dare la possibilità a tutti di godersi vino e pasto caldo, generosamente preparati dalle nostre donne, le più agguerrite, le meno disposte a negoziare: sono secoli che ci massacrano i figli, li rapiscono, li convertono comunque; no, non saremo più carne da macello. Fino all’ultimo momento invitammo i fattori della comunità e i loro sostenitori a partecipare alle discussioni, a sentire le nostre ragioni: la nostra vitalità contrapposta alla loro rassegnazione; il nostro coraggio di fronte alla loro paura; la nostra certezza davanti al loro dubbio. Non ci convinceva più, da tempo, la loro idea e desiderio di protezione; quel modo di mediare per salvarci la vita. Finalmente oggi capivamo, che questa schiavitù, questo strisciare, questo terrore costante, abuso delle nostre vite e coscienze, era come non vivere, noi non volevamo più stare al mondo in questo stato. Noi volevamo decidere per noi stessi, lottare, comunque, anche se a costo di perdere i nostri figli.

Le spaccature che ci furono in quei giorni, addirittura tra fratelli, chi voleva combattere e chi propugnava l’appoggio al papa contro la rivoluzione, sono state l’inizio della battaglia, veramente, senza esclusione di colpi. Ma una cosa non potrò mai dimenticare: dentro queste feroci contraddizioni e scelte dolorose e paura e rabbia, il ghetto di Roma, che dal 1555 subiva soprusi, editti, attacchi, umiliazioni, repressioni, violenze di generazioni di cristiani, oggi quel ghetto era vivo, una ferita aperta, ma palpitante e appassionata.

FINE 1° PARTE

UNA PIOGGIA MIRACOLOSA
L’alba del 2 del mese di shevat nasce sopra le nostre teste infreddolite. I fuochi, accesi dal giorno prima, li avevamo alimentati tutta la notte tra discussioni, canti, preghiere. Ricordo quel cielo terso, lucente, freddissimo, mi pareva che l’Onnipotente lo avesse fatto nuovo, tanto era magnifico. Era proprio il cielo di un miracolo.

Pio VI, maledetto sia, aveva condannato la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, provocando in Francia una spaccatura, tanto che anche il clero si era diviso, tra sacerdoti costituzionalisti e fedeli al papa. Ora noi ebrei, rinchiusi nel ghetto di Roma, siamo accusati di far circolare le idee di libertà, uguaglianza e fratellanza celebrate in quella dichiarazione. Arrivano le prime notizie allarmanti. Il diplomatico francese Ugo di Basville - venuto a Roma con l’incarico di rappresentare la Repubblica e quello, non si sa bene se ufficiale o segreto, di diffondere nella capitale le idee della rivoluzione - era uscito quella mattina con la moglie e il figlio in carrozza e mentre percorreva il Corso fu circondato da una folla inferocita di cristiani che lo aggredirono perché esponeva sull’abito le coccarde tricolori; venne assalito a colpi di pietre, trascinato fuori dalla carrozza e malmenato brutalmente. Aiutato dai suoi servitori, riuscì a fuggire e rifugiarsi a palazzo Palombara, sede del banchiere francese Mout, ma poco dopo, la canaglia cristiana penetrò a forza nel palazzo, lo saccheggiò e uccise Basville. Sembra che sia stato colpito da un fendente di rasoio alla gola e che morisse dopo alcune ore di agonia. Dopo fu la volta dell’Accademia di Francia a palazzo Mancini in via del Corso, presa d’assalto e razziata e incendiata anch’essa. Non ci si meravigliò poi tanto quando, settimane dopo la fine degli scontri, giunsero notizie che il Governo della Convenzione denunciò il papa come mandante dell’assassinio del rappresentante della Repubblica.

Infine, la canaglia cristiana si avvia verso il ghetto, luogo simbolo di tutto il disprezzo, con il chiaro intento di massacrarci. La rievocazione di questo evento divenne poi una preghiera, chiara, intensa e forte; questo noi preghiamo, senza falsificazioni: “In questa notte all’uscita del capo mese di shevat dell’anno 5553 in cui si sollevò chi ci odia senza motivo né colpa, con ira e odio per annientarci, ci scampi! Senza speranza di resurrezione, avanzando calunnie contro di noi. Lo scopo era quello di non lasciare in vita nulla della vite fruttifera (gli ebrei). I cristiani vennero presso le nostre porte per cancellare il ricordo degli ebrei. (…)”

Ecco i nemici assaltano i portoni, sono muniti di fascine per “dar fuoco all’ebbrei”. L’ordine dentro era difendersi dall’attacco evitando lo sfondamento. Ancora niente armi, ma eravamo compatti, un sangue freddo che quasi ci sorprese, sembravamo un esercito avvezzo al combattimento; le donne, prontamente, organizzarono una catena coi secchi d’acqua perchè il fuoco era il pericolo maggiore in quella situazione. A notte alta assalirono il portone della Regola e quello di Quattro Capi; fra i nostri ci furono perdite e feriti. Salomone di Segni, che coraggiosamente tentò un solitario attacco, fu catturato dai trasteverini che gli ingiunsero “o muori o fatti cristiano”; fu portato ai catecumeni e ritornò dopo 40 giorni, sfinito, emaciato ma ancora, ostinatamente, ebreo.

I cristiani inferociti non risparmiarono nemmeno gli animali: nella piazza delle Tartarughe mozzano la testa a un povero cavallo di un carro lasciato incustodito.

Sono ossessionati dal volerci dare fuoco, una pratica da loro inventata e praticata. I condannati prima di morire bruciati vivi sulla pubblica piazza davanti a una folla voluttuosa dovevano prestarsi a varie umiliazioni, ma soprattutto campeggiava la croce, sugli abiti dei condannati, su quelli dei persecutori, sulle tonache degli ecclesiastici, nella processione finale che portava al rogo, croci a cui inchinarsi, croci da baciare, croci da adorare, su cui giurare, a cui chiedere perdono, anche un minuto prima di essere uccisi, croci dappertutto, come oggi come sempre come per chissà ancora quanto tempo, la croce è la rappresentazione della loro giustificazione a distruggerci e della nostra condanna a pagare fino alla fine dei giorni.

Come è mai possibile che, anche da parte degli stessi ebrei, ogni volta che si ricorda uno scampato pericolo, come fu il nostro, o un avvenimento, si senta la necessità impellente di mistificare, falsificare la realtà cosicché, di volta in volta, il nemico si chiama popolino, turba, cittadini, plebe, stranieri, ma mai si nomina la parola, la radice, l’archetipo del nostro dolore e della nostra disgrazia e cioè i cristiani? Per non eccitare i loro animi già così violenti? Per non offendere chi ti odia? Per paura di morire? Già, un ebreo sa che può morire anche per un nonnulla, a discrezione del cristiano di turno, un ebreo nasce dal ventre di sua madre che conosce questa morte innaturale, e per evitarla fa qualsiasi cosa, anche tradire il suo stesso popolo. Peccato però, che a simili carnefici non è mai bastato neanche questo: se lo vogliono, lo desiderano, lo ritengono opportuno, ci umiliano e ci massacrano ugualmente.

Come quando il venerdì santo i cristiani assatanati agguantano il nostro rabbino, lo insultano, gli sputano e lo conducono in chiesa alla presenza del vescovo di Roma. E questi, dopo aver ricordato l'infamante accusa di deicidio che incombe su di lui e su tutto il nostro popolo, gli assesta poi un gran calcio in culo, scatenando il giubilo della caritatevole folla cristiana.

E adesso, chiunque di voi, nostri onorati e dotti fattori, uomini di buon senso, mediatori per il bene comune, non veniteci a dire le solite melliflue parole, non stateci a misurare con il vostro bilancino il maggior male di ieri con i roghi rispetto al minor male di oggi con i ghetti, non opprimeteci con i vostri progetti di dialogo con il boia per migliorare la nostra posizione, non convinceteci che il silenzio e la sottomissione ci permetteranno di vivere. Dovete scegliere: o vi togliete di mezzo o vi mettete al nostro fianco che noi dobbiamo liberarci. Ma decidete ora, ché i cristiani sono fuori dal ghetto con la bava alla bocca e loro sì che sanno bene cosa vogliono, annientarci tutti.

Falliti i diversi tentativi di incendiare i portoni, i cristiani tentano l’attacco via fiume utilizzando barche cariche di fascine per dar fuoco alle finestre che sono vicino al ponte dei Giudei nei pressi della chiesa di San Gregorio, dove sempre si tenevano le prediche cristiane obbligatorie per noi ebrei. Erano trascorse 24 ore dall’inizio dell’attacco. La folla fuori era aumentata, brandiva crocifissi ed altre armi, circondava il ghetto per non farci uscire, un vero e proprio assedio. Nonostante fino a quel momento fossimo riusciti a respingere i tentativi di incendio, la preoccupazione e la paura che finissero le scorte di cibo ci assalì. I nemici non avrebbero certamente desistito dall’accerchiamento ed erano numericamente superiori. Si decise di mettere al riparo i bambini, i vecchi e i malati; le donne divisero i viveri in razioni, raccolsero coperte, recuperarono stracci per farne dei bendaggi per i feriti. Il rabbino aveva messo a disposizione la sua casa perché proprio quella notte venne alla luce un bambino. Il Creatore ci farà numerosi come le stelle del cielo e come la sabbia del mare, i nostri figli continuano a venire al mondo anche nell’oscurità dell’umana giustizia.

Finalmente, a notte alta, si affiancò alla nostra strenua resistenza la potenza dell’Altissimo. Quel cielo che durante tutto il giorno era parso indifferente alla nostra lotta per la sopravvivenza, che contrapponeva il suo azzurro cristallino al nostro rosso sangue e al bagliore dei fuochi nemici, improvvisamente si fece di piombo. L’aria si fermò, scomparvero i voli degli uccelli; ormai niente si frapponeva tra le nostre preghiere e la misericordia del Creatore. Stuoli di lampi riempirono di bagliori l’aria; poi tuoni minacciosi ammutolirono la feroce canaglia cristiana che sembrò aver perso l’orientamento del suo delirio; persino la milizia papalina, accorsa per difendere i cristiani e mantenere l’ordine pubblico dopo aver fallito all’Accademia di Francia, fu sul punto di ritirarsi definitivamente. Ma nessuno, di questi e di quelli, poté più alcunché: le cataratte celesti si spalancarono e un diluvio minaccioso, prepotente ma miracoloso, tanto si abbatté che tutti li disperse. I torrenti del cielo spensero definitivamente i fuochi, sgominarono il nemico, compattarono i nostri cuori.

Fu ancora una notte insonne, quella, ma per la gioia della salvezza.

“Questa luce (è in ricordo) dei miracoli che il Signore ha operato al suo popolo in questo ghetto; dunque ringraziatelo.

Il 2 di shevat ricorda il Signore che ha operato un miracolo per noi, gloria a Lui nell’anno 5553: Egli ha abbassato con forza ogni nemico ed ogni cattivo, sottomettendoli a Lui.

In grandi schiere essi vennero decisi per distruggere i figli del Signore vivente, Suo popolo, apponendo fiamme di fuoco, per divorare tutto, compresi uomini, donne e bambini.

Il Signore, creatore del mondo e di ciò che è in esso, ha salvato prontamente il suo popolo. Il cielo terso si addensò di nubi ed una forte pioggia fu per lui di salvezza.”

FINE 2° PARTE


L’ASSEDIO DEL GHETTO
Il mattino seguente ci colse spossati ma pronti a ricostruirci. Quale amarezza, però, ci attendeva: andati in fumo i diversi tentativi di bruciare il ghetto e i suoi abitanti, ci trovavamo comunque sotto assedio. Nessuno poteva uscire né entrare, evidentemente. Si vociferò che il governo papalino, per tutelarci da possibili nuovi attacchi della canaglia cristiana, ritenne questa una misura protettiva nei nostri confronti. Peccato, però, che durante quei lunghissimi e drammatici otto giorni di isolamento, lo stesso papa che voleva proteggerci non ci abbia riforniti di vettovaglie per sopravvivere. Come topi in trappola morimmo di fame e di stenti per quell’infame accerchiamento, ancor più che durante la lotta organizzata per difenderci.

Le proteste contro i fattori che continuavano a propugnare la linea morbida sfiorarono lo scontro. Soprattutto chi aveva perso qualcuno non si dava pace, i bambini avevano fame, i malati e i feriti necessitavano di cure immediate, che almeno obbligassero il governo papalino a sfamarci o che ci permettesse di uscire scortati da quelle loro milizie per rifornirci dei beni essenziali. Purtroppo fallirono le ambascerie, fallirono le genuflessioni, fallirono gli incensamenti. Ci auto-tassammo perfino, raccogliendo 56 scudi e 40 baiocchi, ma la somma era insufficiente per sopperire ai numerosi bisogni. Il Consiglio allora tentò di imporre un contributo straordinario, ma la raccolta non ebbe seguito perché “uno dei più opulenti” si rifiutò di partecipare. Si scrisse allora alle altre Comunità per chiedere un aiuto economico da usare come riscatto per le nostre vite; alcune risposero ma da altre “non si ebbe risposta.”

Nel frattempo il ghetto rimase serrato, la canaglia cristiana, sgominata da D.o con il diluvio, cedeva il passo allo stillicidio papale, che otteneva risultati ben più consistenti.

Il quinto giorno di prigionia, consunti dal gelo, dalla denutrizione, dai lutti, inermi e moribondi, subimmo il colpo di grazia. Regnava, oramai, un penoso silenzio all’interno del recinto di questo tugurio infame e, quella mattina, si sentì la voce esperta del banditore che leggeva per le vie la disposizione dell’autorità. Se, nel caso, il popolo romano se ne fosse dimenticato o se, mai sia, il popolo deicida sperasse che la sua posizione odierna fosse quella di alzare la faccia da terra per essere riabilitato, Pio VI, maledetto sia, rimetteva tutti in riga, in un sol colpo. Carnefici e vittime aprissero bene le orecchie alla rilettura dei 44 articoli dell’Editto sopra gli ebrei, averlo promulgato 20 anni or sono (nel 1775) non significa che esso non sia in vigore tutt’ oggi, che questi infidi giudei hanno osato difendersi. Onesti cristiani, tenetevi alla larga da questi appestati, e voi schifosi, assassini di jeshu, la pagherete cara se solo oserete avvicinarvi a noi. E, visto che voialtri ebrei siete infidi per natura, malvagi e abili nel mescolarvi fra i popoli, il segno giallo sul vostro cappello vi distinguerà dal mio popolo cristiano.

Sbarrati per otto giorni quei dannati portoni, messo in atto l’assedio governativo che mascherava le milizie papali da protettori, ci negarono anche il minimo per sopravvivere; aguzzini scellerati, guardie e civili piantonarono ogni nostro tentativo di uscire, ci inflissero il massimo dell’umiliazione quello shabat di segregazione: solenne fu l’apertura dei cancelli e la scorta di soldati per impedire alla canaglia cristiana di linciarci, ma misera, infelice e annichilita la lunga fila di ebrei obbligati a sentir messa nel giorno più santo.

C’ero anch’io tra quei compagni e compagne costretti alla messa. Tenevo saldo il mio animo al ricordo degli ebrei di Susa, in Persia, nel giorno della loro liberazione; mi consolavano i Maccabei che si opposero al nemico invasore, si sollevarono e ribellarono, guidati da Mattatia e dai suoi figli morti tutti nei combattimenti; m’incoraggiava Eleazar ben Yair il capo zelota che nella fortezza di Masada, dopo due anni di assedio, resosi conto della disfatta imminente, parlò alla sua gente inducendola ad un suicido collettivo per spada, sembrando questa una sorte preferibile ad un sicuro stato di schiavitù.

Le gesta gloriose dei miei antenati mi pompavano con vigore il sangue al cuore, mentre l’untuoso sacerdote vomitava parabole che non ci apparterranno mai. Fiera della mia diversità e nemica giurata del loro ecumenismo assassino, tenevo lo sguardo fisso a terra per non guardare la croce, incarnazione della nostra morte.

Infine riaprirono di giorno le porte del ghetto, eterna derisione, e quelli tra noi sopravvissuti alla battaglia, agli stenti, alla fame, ripresero la vendita ambulante di stracci, unico mestiere permesso fuori del ghetto. Ora i cristiani di Roma, dopo la rilettura pubblica dell’Editto sopra gli ebrei, avevano rinfrescato la loro memoria, e, frustrati per il mancato massacro del 2 di shevat, se la rifacevano, come potevano, contro di noi: “e viva il papa e fuoco alli ebbrei” era il ritornello più in voga.

VOGLIA DI LIBERTA’
Il vero cambiamento, sostanziale, ardente, incontrovertibile, fu dentro di noi, tra noi; aveva attecchito nelle coscienze, usurpato il trono del terrore, si era insinuato nei discorsi quotidiani, riaccendeva gli animi, aggregava desideri, alimentava speranze, progettava azioni. Chi aveva partecipato alla resistenza sentiva un’intensa fratellanza, un’appartenenza riconosciuta e riconoscibile. E trovarci al limite delle possibilità materiali, morali, fisiche non intaccava la vitalità di questo comune sentire. Furono i giorni in cui, finalmente, i maggiorenti dovettero misurarsi con quella parte di popolo fedele alla propria volontà di essere libero. Si decise tra noi un incontro al vertice dopo che, per caso, eravamo entrati in possesso di alcune lettere scritte in quei giorni tremendi da tre fattori alle altre Comunità, per richiedere un aiuto in denaro.

“Lettera circolare mandata a diverse kehillot dell’Itaglia in chiederle qualche tangente di soccorso per sussidiare i nostri poveri e sovvenire a grandi spese vi vogliono in sollevare un poco da tante vessazioni che si soffra a cagione della rivoluzione del popolo meno discreta e cristiani contro gli ebrei per volergli incendiare la sera delli 2 di shvat 5553 per falsa idea credendogli fossero adirenti all’iniqui francesi loro contrari.
Sarà ben noto alle Signorie Loro Molt’Illustrissime la rivoluzione qui nata… Sono del popolo minuto contro la nostra Nazione avendo già dato di piglio molte migliara di persone a numerose fascine per incendiare il nostro chatzèr (recinto) senza…
Li prodigi altissimi però furono evidenti perché il Degno nostro Sovrano fece assistere dalla soldatesca in gran numero appiù poi che verso la mezza notte che forse non potevano più li soldati soffrire la calca di tanta gente affollata per sommergerci nelle fiamme, calò della gran Pioggia bekolòt uvrakìm (con tuoni e fulmini) che incutè del timore a tutti li contrari e principiò a dissiparli. Tanto più che da li capi del Militare sentivansi dire che eglino non potevano prenderla col proprio D.o che faceva un opposto di loro per estinguere il fuoco, continuò per 8 giorni tal persecuzione che si dovette stare tutti racchiusi nel nostro chiostro, per appagare il popolo dovette il clemente pontefice far di nuovo riemanare l’antico editto per il siman (segno) e tutt’altro che causerà galut (esilio, problemi gravi), e molti si arretrano dal sortire dal birshut harabim (in luogo pubblico) per esimersi da insulti di modo che en hakomez masbì’a et haarì (è impossibile sfamare un leone con un pugno di cibo).
Conviene perciò aver memoria di fare atto grato a molte migliara di soldati ed altre cose che tutt’assieme sormontano a una vistosa somma (….)
Loro parci col perorare L’altissimo per noi, faccia togliere dal cuore di questo popolo minuto quel fermento che continua e che continua a farle avere sentimenti contrari di noi senz’alcun principio così noi sin da ora non lasciamo di ringraziare la bontà loro (delle altre comunità) che colla loro prodiga mano adjutrice commiserano il caso sì fatale, potendo ben dire lulè Hashem shehyà lanu kim’at dumà nafshenu (se Hashem non fosse stato per noi sarebbe stato quasi silenzio per le nostre anime), accompagnato all’Innata Bontà del Regnante che tanta premura si prese di farci riguardare con indefessa cura, e tutti disposti a loro comandi di vera stima diciamo ossequiosamente
Delle SS.ie Loro Molt’Illustrissime
Servi Obligatissimi

Questa missiva portava in calce le firme dei nostri tre fattori, Tranquillo del Monte, Isaia da Castro e Samuele Moro. La lessi io a voce alta per tutti i compagni, eravamo nel nostro quartier generale, una cantina umida, ma riparata da occhi indiscreti; un fuoco robusto al centro della stanza raccoglieva il freddo delle ossa, gli sguardi reciproci, i pensieri, le idee, le decisioni prese a maggioranza.
Cosa dicevano i nostri governanti: chiedevano aiuto certo, eravamo ridotti all’osso, il freddo pungente, la denutrizione, la paura, la morte. Ma i fatti descritti, quei giorni di lotta, di furore, di eroismo, di perdite, non erano i nostri stessi nove interminabili giorni in cui il nemico non ci diede tregua. Restammo muti, attoniti a sentire che il boia è il benefattore, che il clemente pontefice non solo riemette l’infame editto aggiornato per placare l’odio mortale del popolo cristiano, ma, chiudendoci nel ghetto, senza pane e acqua, in realtà ci ha protetti. Incredibile! Si definisce clemente un’assassino, ma clemente è qualcuno benevolo, umano, pietoso, misericordioso, non il papa, non Pio VI, maledetto sia.

Per arrivare a dichiarare che l’Editto sopra gli ebrei è stato fatto a difesa degli stessi ebrei; per riuscire a mistificare la realtà al punto da far ricadere la responsabilità di quanto successe nel ghetto esclusivamente sulla plebaglia di “Trasteverini, Monticiani e Regolani”; per giungere a considerare l’azione dell’esercito del papa un tentativo fatto dall’Innata Bontà del Regnante che tanta premura si prese di farci riguardare con indefessa cura; per arrivare a tanto, vuole proprio dire che queste vittime, questi ebrei sono finalmente annichiliti.

Da una parte la paura di morire è schiacciante, e, pur di vivere, ci pieghiamo ad un triste servilismo; dall’altra, il desiderio di vivere è così evidente che preferiamo morire lottando piuttosto che farci divorare dal nemico. Stretti intorno al fuoco, mentre la notte ci copre le spalle, comprendiamo che la vita che l’Onnipotente dà a ciascuno secondo la propria diversità - vita da praticare, spendere e godere nella differenziazione - oggi, nel mese di shevat dell’anno 5553, a causa di secoli di patimenti, strazi, omicidi, rapine, cacciate, evangelizzazioni, supplizi, è vuota di tutto ciò che ci appartiene: hanno vinto i sopraffattori se baciamo loro le mani, mentre ci colpiscono.

Una tristezza incontenibile raggrumò l’anima di tutti. La lettera negava anche la nostra partecipazione a quella strenua lotta in difesa del ghetto e delle vite di tutti; cancellava la verità dipingendoci ancora una volta come bravi e riverenti. Certamente coloro che la vergarono sapevano che non sarebbe arrivata solo ai destinatari nostri fratelli e che la censura cristiana si sarebbe abbattuta inclemente; per una virgola fuori posto qualcuno di noi l’avrebbe pagata. Esperti oramai di adulazioni, ricattabili in qualsiasi circostanza, i maggiorenti da sempre conducevano siffatta politica della sopravvivenza, ma chissà anche di quale altra convenienza. Ma noialtri? Non avevamo forse dimostrato il nostro dissenso da questa pratica? Non avevamo espresso con chiarezza il nostro pensiero sulla completa inopportunità dell’opportunismo? Non avevamo finalmente preso coscienza che perseverare nel fare atti grati all’oppressore non aveva mai modificato la nostra condizione di infami deicidi? Che continuavamo a morire da sempre? Che tanto il rogo, quanto la croce e la messa di shabat sono strumenti di morte? Morire giustiziati o morire consunti in un ghetto, in cosa differiscono, dunque? Oggi noi compagni lo sapevamo fin troppo bene, nessuna differenza, si muore comunque, si crepa da schiavi, da dominati, da vittime sacrificali.

Mentre ci interrogavamo su come reagire, arriva trafelato Settimio, il più giovane tra noi, appena bar mitzvà; sua madre è una delle donne più infuriate, più combattive, sempre in prima linea, nelle assemblee la sua voce tuona minacciosa, è contraria ad ogni negoziato, la linea dura è la sola sua consolazione. Ha perso chi amava. Settimio annunciò una notificazione al pubblico, tutti dovevamo correre al tempio a sentire.

Quella stessa mattina era stato tentato un altro attacco cristiano. Era l’alba di ghiaccio che entrarono dentro un gruppo di nemici, la sinagoga era in preghiera, l’odore del giorno che inizia era dentro le abitazioni, un momento perfetto per infierire, da veri vigliacchi. Girarono ostili nel nostro territorio urlando, minacciando, terrorizzandoci. Gridavano “ E Viva il papa, e fuoco alli ebbrei. E Viva il papa, e fuoco alli ebbrei!”.

Vista la facilità con cui gli ebrei erano pericolosamente minacciati - e poiché bastava che un solo ebreo fosse accusato e imprigionato che, suo malgrado, tutta l’intera kehillà sarebbe stata coinvolta nella disgrazia - il consiglio pressante era di frenare la lingua, dimostrando un’ardente brama di tranquillità e di augurare la felicità e la salute del papa, nostro degnissimo sovrano. Si chiedeva alle donne di uscire dal ghetto vestite modestamente, per non soffrir “galùt” e se, D.o ce ne scampi, qualcuno fosse incappato nei guai, li sopportasse con rassegnazione. In ultimo, e questo andava fatto adesso, bisognava disfarsi di qualunque arma si avesse in casa.

Il messaggio forte e chiaro, tradotto per le nostre teste svuotate era: vietato reagire, vietato difendersi, si deve mantenere un profilo basso, semmai occorre riverire, come siamo tanto bravi a fare. Forse i maggiorenti contano sulla nostra consolidata predisposizione a sopportare le sciagure, sono quasi certi che ingoieremo ancora una volta il boccone amaro, certamente sono preoccupati se accadrà qualcosa di spiacevole, e sanno che rischiamo di incorrere in ulteriori pericoli. E poi le donne, i bambini, i vecchi, dobbiamo pensare a loro, proteggerli.

Cosa accadde quella notte nel tempio al cospetto di tutta la comunità? I nostri governanti chiesero un parere e dovettero misurarsi con la nostra risposta muta.
Eravamo venuti in possesso clandestinamente del documento sui Diritti dell’Uomo e del Cittadino e un’irrefrenabile, incontenibile nuovo desiderio di libertà si sparse fra le nostre donne, i figli, i vecchi; tutti realizzammo che la vita in schiavitù non vale la pena di essere vissuta. In un silenzio sospeso, nella penombra notturna rischiarata appena dagli ultimi mozziconi di candele, un mare di braccia alzate - chi ne alzava due, chi teneva in braccio bambini che sollevavano le manine, vecchi che levavano su al cielo anche i bastoni; tutti noi saremmo insorti all’arrivo dei francesi, tutti noi avevamo trasformato la paura in rabbia. Finivano quel giorno le minacce di Golia, nessuno oggi era più gigante e temibile di questo esercito di novelli Sansoni.

I nostri oppositori si contarono sulle dita: le famiglie dei tre fattori, quelli più possidenti, chi, tutto sommato, era riuscito a vivacchiare, pagando fior di scudi ed esibendosi in smancerie con i potenti. Pazzi, pazzi, pazzi, siamo tutti perduti, ci triteranno, non avranno pietà nemmeno dei più piccoli, inaspriranno le pene, rafforzeranno gli editti, aumenteranno le tasse, intensificheranno le conversioni forzate, confischeranno i pochi nostri beni, il popolo romano cristiano ci assalirà ancora, il papa sovrano ci ricuserà, abuseranno delle pene capitali, chiuderanno ancora il ghetto, moriremo, moriremo, moriremo!!

Ma la voce chiara e roca di Settimio, risuonò potente come lo shofar: qui da noi non si è mai smesso di morire per questi motivi. Qui da noi la morte naturale non esiste.

Si levò un grido di dolore da questo mucchio di ebrei, poi un altro, e singulti, gemiti, pianti dirotti. Ci mancavano i nostri figli, fratelli, genitori, amici, compagni; la loro memoria era da sempre uno strazio, uno strappo senza senso. Ci stringemmo tutti, non era il freddo che pure non dava tregua, era il dolore. Il kaddish fu una sola voce di mille voci. Arrivati alla resa dei conti, ormai tutti lo sapevamo, era solo questione di poco tempo.

I nostri governanti scesero dalla Tevà: non c’erano più minacce da esibire per indurci ad abbassare la testa, né preghiere per convincerci o richiami al buon senso che ci spingessero a cambiare idea, non opportunismo, né speranze che tutto sarebbe andato meglio se avessimo obbedito. Si mischiarono a noi, furono parte di quella folla densa, coesa, decisa; nessuno spingeva, né calcava o sgomitava. La nostra dignità e la speranza per la libertà ci guidarono fuori, nel gelido plenilunio di adar, il mese della gioia, della vittoria del popolo ebraico sul nemico persiano.

C’eravamo detti tutto, ormai, neanche i nostri cani abbaiarono quella notte, come quando uscimmo dall’ Egitto, dalla casa della schiavitù.

FINE 3° PARTE


L’ALBERO DELLA LIBERTA’
Le notizie che arrivano sono sempre più frenetiche e alimentano il nostro desiderio di libertà. Nel 1796 i francesi entrano in Italia, danno vita alla nascita delle repubbliche giacobine e crollano via via i vecchi stati assolutistici; lo stato pontificio poco ci mancò che sparisse definitivamente. Si sta avverando il nostro sogno di vedere scomparire lo stato canaglia del papa, mentre le idee repubblicane prendono piede fra noi e si riducono i dubbiosi e gli incerti.

Avevamo saputo che con il trattato di Tolentino del 19 febbraio 1797 - sancito fra Napoleone, nostro liberatore, e Pio VI, nostro persecutore - i territori romagnoli dello stato pontificio si erano costituiti in repubbliche.

Intanto a Roma le idee rivoluzionarie si stavano diffondendo e si andava formando un partito repubblicano composto prevalentemente da artisti e intellettuali a cui partecipavamo, clandestinamente, anche noi ebrei. Si organizzavano discussioni ed incontri in attesa della liberazione. Nel luglio del 1797 viene scoperta una congiura repubblicana organizzata da alcuni patrioti romani, fra questi il medico Angelucci e il commerciante ebreo Arcorelli.

Il papa e la corte si circondavano di miserabili accorsi in gran numero. La città fu assediata da uno stuolo di spie e delatori i quali contavano i nostri passi, notavano le nostre parole, facevano attenzione al color dei nostri volti, ed interrogavano fino i nostri sospiri. Da quel momento non vi fu sicurezza per alcuno. Gli odi privati trovarono una sicura via per giungere alla vendetta, e coloro che non avevano nemici ne trovavano nei loro amici medesimi, che la sete dell'oro vendeva o l'ambizione.

Cosa può restar d'onorevole, noi lo domandiamo, ad una nazione nella quale il potere dispensa ai soli delatori gl'impieghi, gli onori e le ricchezze?

Quanto eravamo odiati noi insieme ai Francesi. Secondo preti e cristiani eravamo “eretici, gentili, scomunicati, verso i quali non erasi obbligato di conservare né la fede del giuramento né le leggi dell'umanità, potevansi inseguire come briganti, ucciderli come cani, pugnalarli alle spalle, assassinarli durante il loro sonno, avvelenarli nei loro pasti. Per essi e verso essi che avevano disprezzato tutte le cose sante, nulla più di sacro. Uccidere un francese, in qualunque modo si fosse, valeva avanzare d'un gradino nella salita della scala che conduce al cielo”.

Con queste premesse successe un fatto che portò velocemente alla proclamazione della Repubblica Romana e alla nostra liberazione. E’ una storia violenta, come tutte le storie in cui gli attori protagonisti sono cristiani. La sera del 28 dicembre, un gruppo di repubblicani, composto per lo più da artisti e intellettuali e completamente disarmato, tentò di organizzare una manifestazione, come altre volte, davanti al ghetto dalla parte di piazza delle Cinque Scole. La situazione precipitò e l’esercito pontificio scatenò un proditorio attacco contro i repubblicani che, indifesi, si precipitarono a Palazzo Corsini, in Via della Lungara, residenza dell’ambasciatore Bonaparte; egli si affrettò incontro all’esercito per parlare con il capitano papalino Amedeo (o Amedei), invitandolo alla calma, ma questi si nascose nei ranghi rifiutandosi di uscire. A quel punto i papalini caricarono le armi e il generale francese Duphot si presentò verso i soldati pontifici per impedire loro una seconda carica. Senza che vi fosse alcuna provocazione, un fucile sparò, sembra fu proprio il capitano, che colpì in pieno il generale francese; questi si rialzò appoggiandosi sulla sua spada, evidentemente ferito e innocuo, ma un colpo di spada lo rovesciò nuovamente a terra e quaranta colpi di fucile partiti dalle file dell’esercito del papa lo crivellarono a dovere. Fu una strage; l’ambasciatore scappò in casa passando per il giardino pieno di morti e feriti. A stento le porte che davano sulla strada vennero chiuse, non senza altri colpiti a morte. Nel palazzo l’ambasciatore e gli assediati, riusciti a raccogliere qualche arma per difendersi, decisero di andare a strappare il corpo del loro amico Duphot dalla furia degli assassini; la sortita riuscì ma lo spettacolo davanti a cui si trovarono quei francesi fu raccapricciante: il corpo di Duphot era completamente nudo, crivellato di ferite e sepolto sotto le pietre che gli erano state lanciate addosso. Il capitano Amedeo, il capitano degli assassini, lo aveva derubato della spada e il curato d’una vicina parrocchia si era appropriato dell’orologio.

Durante quelle lunghe sei ore di fuoco nessun tentativo era stato fatto dal Vaticano per soccorrere l’ambasciatore e i suoi. Ancora una volta assistemmo ad un silenzio complice di un delitto, ad un sanguinoso assassinio che fece riscontro a quello, ugualmente feroce, di Basville, di qualche anno precedente.
Fu in seguito a questo tragico evento che il Direttorio rifiutò le scuse del papa diede a Berthier l’ordine di marciare sul territorio pontificio, occupare militarmente Roma e proclamare la Repubblica.

E così, cinque anni dopo i gloriosi eventi del ghetto, noi ebrei di Roma eravamo predisposti alla lotta armata in difesa degli abitanti del ghetto e per l’emancipazione. Erano gli anni potenti della rivoluzione francese, dei combattimenti in nome della libertà, della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. Un’eccitazione portentosa percorre come un brivido il ghetto, cambiamenti epocali sono alle porte: in molti desiderano partecipare alla caduta del potere temporale del papa sovrano-aguzzino, in particolare noi ebrei.

Il 10 febbraio 1798 le truppe francesi circondano la città, occupano Castel S. Angelo entrando definitivamente a Roma. I soldati pontifici, in un eccesso di vigliaccheria, non tentano nemmeno la difesa. Il 16 febbraio, anniversario dell’ascesa di Pio VI, maledetto sia, al soglio pontificio, a Campo Vaccino antico Forum Romanum viene proclamata la Repubblica Romana. Un cospicuo gruppo di persone riunitesi sotto le finestre del Vaticano urla a squarciagola “Viva la Repubblica, abbasso il papa!”

Ma una triste minaccia, dentro questa catarsi, non si può tacere. La malvagità subita per secoli ci fa addirittura temere la libertà tanto aspirata. I giorni della liberazione del ghetto sono giorni di sangue e di paura. Nuovi pericoli sono in agguato e noi ne percepiamo in tempo ogni segnale. Se costringi per anni un uomo al buio, il giorno che lo riconduci alla luce del sole egli non sarà capace di vedere: i suoi occhi violati, assuefatti all’oscurità, temeranno la luce che provoca dolore, coglieranno ogni insidia. La prigionia e l’asservimento ci ha modificati, nel carattere e nel fisico: siamo di statura bassa per secoli di malnutrizione; molti di noi manifestano già da piccoli contrazioni nervose in varie parti del corpo; la vista è indebolita, il sistema nervoso depresso; invecchiamo precocemente, parassiti e infezioni sono consuetudine; la superstizione, poi, fa la parte del leone; non pensiamo più, non ragioniamo, abbiamo paura perfino di noi stessi. Della libertà, evento inedito per noi, è bene diffidare; il ghetto senza le porte fa paura.

La città è un vespaio di gente che scappa, si nasconde, combatte, si difende. I cristiani, brandendo le armi, proteggono il loro papa al grido di “Viva Maria, viva il papa!”, e, terrorizzati, tentano disperatamente di salvare la città eterna, le chiese, le case, i beni dalle rapine dei francesi, ma non tollerano la nostra emancipazione, proprio noi eterni colpevoli, perfidi giudei, traditori, bestie da macello, rigurgito dell’umanità. I combattimenti si concentrano nella zona del ghetto. Noi, con le coccarde tricolori appuntate sugli abiti, con in mano le armi clandestine, siamo al fianco dei liberatori. Ci vorremmo vendicare, distruggere il nemico cristiano, invadere le sue case, depredare le sue ricchezze, violare il suo dio. Ma il disgusto per quanto subimmo è tale che smarriamo perfino il senso della vendetta. Nel giorno più caro, dopo 243 anni di orrori, ci scopriamo così annientati nella mente, nel corpo, nell’anima, che gli stessi francesi si stupiscono per questo spettacolo beffardo: molti di noi, troppi, non riusciamo a lasciare il ghetto infame.

Ma cosa ne sapete di strazi secolari, voi liberatori, che oggi aprite la nostra prigione e abbattete le nostre porte, come ci difenderemo quando saremo attaccati all’improvviso, magari nel cuore della notte? I cristiani non ci lasceranno in pace, non durerà, vedrete. Gli ebrei di Mantova tolgono i catenacci esterni dalle porte del ghetto, ma non quelli interni, per rimanere liberi di “chiudersi a loro piacere”; gli ebrei di Firenze richiudono ogni sera i portoni per sentirsi più al sicuro.
Come criticare queste azioni preventive ? A Modena, poco dopo l’apertura del ghetto “la popolazione suggestionata dal clero, tumultuò e a sedare gli animi dovette intervenire in forze il comandante francese. Anche l’iscrizione degli ebrei alla Guardia Nazionale fu oggetto di contestazione e provocò incidenti”. Si moltiplicano gli assalti e le accuse più assurde: a Pisa gli ebrei sono aggrediti insieme a due mussulmani per aver - sostengono loro - sputato sulla porta del duomo; a Livorno la sinagoga è attaccata nella convinzione che vi fossero nascosti certi marmi di una chiesa sconsacrata; nella pianura Padana gli ebrei sono denunciati come incettatori di grano, durante una carestia; ritorna la calunnia degli omicidi rituali. La tempesta non è solo conseguenza dell’arrivo dei francesi e delle nostre simpatie nei loro confronti: si tratta di un’animosità viva e presente da tanti, troppi anni.

Una triste esperienza che noi ebrei abbiamo ammassato nei secoli ci ha insegnato che quello che viene dato può essere anche tolto nel modo più inatteso e imprevedibile. Nonostante dovunque arrivarono le armi dei francesi si abbatterono le porte dei ghetti, si concessero parità di diritti e uguaglianza e libertà, noi ebrei non potevamo ignorare l’accrescersi della secolare ostilità cristiana contro di noi. D’altra parte, un ebreo che indossa la divisa di guardia Civica o che entra a far parte di un consiglio comunale è motivo di incredulità e oltraggio. Questo è la ragione del nostro vivere, costantemente, in una situazione di pericolo.

Appena soli dieci giorni dopo la proclamazione della Repubblica, si riaccendono da più parti nuovi - ma vecchi, vecchissimi - tumulti antiebraici.
“un disordine indescrivibile e nelle città e nelle campagne, il fanatismo religioso e il furore dei partiti non ebbero più limiti. Si diffuse una propaganda secondo la quale i rivolgimenti francesi non sono che l’episodio finale di un tenebroso complotto contro la religione cristiana e il trono, la conclusione violenta e sanguinosa di una trama ordita con accortezza diabolica da forze diverse, ma convergenti, in cui concorrono ebrei, giansenisti e massoni.”
Da sempre noi, bersaglio più facile e tradizionale, siamo presi di mira: ovunque lo stesso macabro scenario, non appena gli occupanti francesi si allontanano, l’odio della popolazione cristiana riesplode vigoroso, ghetti assaltati, sinagoghe e case saccheggiate, minacce, insulti e percosse agli individui e in alcuni casi si arrivò a veri e propri pogrom, all’eccidio, come nei tristissimi casi di Senigallia e Siena dove molti ebrei vengono trucidati e bruciati vivi nelle piazze – e i partecipanti al rogo senese, terminato l’eccidio, pensarono bene di portare in processione la madonna del conforto -. Ecco il racconto di chi conserva la memoria di quei fatti dolorosi: “quattro persone, tutte di Monte San Savino, tra esse lo zio di Salomone Fiorentino, Aron, sono uccise in sinagoga, distrutti gli arredi sacri e i rotoli della Torà. Vecchi settuagenari vengono pestati e trascinati nelle galere, una donna colpita a morte mentre si affaccia alla finestra, un povero barbiere nel suo negozio, due coniugi fanno in tempo a scambiarsi l’ultimo abbraccio. Un solerte cristiano scaccia un anziano ebreo, riparatosi nella chiesa della Madonna di Provenzano, e lo consegna alla ferocia della teppa, altri vengono condotti nella Piazza del Campo e bruciati, qualcuno ancora in vita.”

Da noi, a Roma, non ci viene risparmiato nulla. Con il pretesto del fatto che noi ebrei indossiamo la coccarda tricolore, i cristiani, (la cosiddetta banda del Viva Maria) - per distinguersi - su quella coccarda hanno sovrapposto una croce e, al grido scomposto di “Viva maria, viva il papa, i rivoltosi percorrono le vie della città massacrando ebrei, patrioti e francesi e tentano di incendiare il ghetto. Molti ebrei sono gettati vivi nel Tevere.” L’attacco dura due giorni ed organizzato e guidato dal clero criminale.

Si scardinano i portoni del ghetto, dopo 243 anni. Siamo liberi, noi ebrei siamo finalmente liberi...

Mai vista nel ghetto tanta gioia: balli, canti, preghiere, lacrime, risa, vino, abbracci, cibo, grida, musica, giochi, baci appassionati, spettacoli, banchetti per molti giorni. Gloria all’Onnipotente che ci libera per mano di Napoleone e del suo esercito. Noi ebrei figli di Abramo, noi discendenti di Mosé, noi destinatari delle Tavole della Legge, siamo cittadini liberi. Possediamo le chiavi delle porte che per secoli ci furono serrate dai carcerieri, governiamo i nostri passi, scegliamo dove andare e quando ritornare, questa è la libertà. Quando al tramonto le campane annunciano i vespri e nelle chiese si reitera il ricordo del deicidio, le porte del ghetto rimangono aperte.

Il 17 febbraio Pio VI, maledetto sia, viene arrestato dalle truppe francesi per essere il mandante dell’assedio del ghetto, dell’uccisione del diplomatico francese Basville e del generale Duphot. La notizia ci lascia indifferenti, siamo solo disgustati dal male che ci ha fatto.

Il 17 febbraio, a Piazza delle Cinque Scole, insieme ai francesi e a cittadini repubblicani, erigiamo l’albero della libertà, simbolo di tutte le rivoluzioni e liberazioni degli oppressi. Si è scelta quella data perché nello stesso giorno dell’anno 1600 Giordano Bruno fu bruciato vivo in piazza Campo de’ Fiori, fra indicibili sofferenze. Alla lettura della sua sentenza dichiarò “Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla.” Il giorno della sua esecuzione con la lingua in giova - serrata da una morsa perché non potesse parlare o lanciare maledizioni - certamente, in cuor suo, confermò quello per cui andava fieramente a morire: “Esistono infiniti mondi diversi ciascuno dei quali raccoglie in sé il proprio universo.”

L’albero della nostra libertà di Piazza delle Cinque Scole è il simbolo della rivoluzione; noi eravamo ostaggio del tiranno oppressore, mentre i romani cristiani erano sudditi, fedeli e servili. L’albero della nostra libertà porta la scritta "Tremate o tiranni, tremate o perfidi, alla vista della sacra immagine della libertà!" Aggiungiamo le nostre preghiere e le lodi, è una gioia inesauribile guardare questo pioppo, maestoso e forte, e ricordarci che siamo donne e uomini liberi.

La mattina del 21 febbraio, a Monte Cavallo, davanti ad una moltitudine di ebrei e cittadini repubblicani, il comandante francese proclama la parità di diritti degli ebrei e la loro piena cittadinanza. Le leggi razziali dell’Editto sopra gli Ebrei sono abolite.

“Innalzati sui cieli, o D.o, fà apparire la Tua maestà su tutta la terra.

Hanno preparato una rete per le mie gambe,
hanno piegato la mia persona,
hanno scavato dinnanzi a me una fossa,
ma ci sono caduti dentro!

Saldo è il mio cuore, o D.o,
saldo è il mio cuore,
perciò canterò e inneggerò.

Svegliati anima mia,
risveglia il liuto e l’arpa,
io voglio destare l’aurora.

Ti celebrerò fra i popoli, o S.gnore,
inneggerò a Te fra le nazioni.

Poiché la Tua bontà arriva fino al cielo
e la Tua fedeltà fino al firmamento.

Innalzati sui cieli, o D.o,
fà apparire la Tua maestà su tutta la terra.”

FINE


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