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EBREI RIPRISTINATE SUBITO CIAMBELLETTE E CAVALLETTE !-Data: 2011-02-21Autore: Gherush92 Le Istituzioni ebraiche dovrebbero insegnare affinché ciambellette e cavallette diventino parte integrante della tradizione locale e del minhag e affinché antiche tradizioni, usi, minhagim, nel tempo dimenticati omessi e vietati, siano ripristinati; in particolare, a Roma, riabilitare l’uso corretto della farina durante pesach e, in generale, studiare, discutere ed insegnare affinché siano riconosciute e riutilizzate, a scopi alimentari, le locuste e altri insetti, permessi dalla Torah e in uso nelle comunità ebraiche, ad esempio marocchine e yemenite. Il minhag (da nahag guidare, condurre) denota il preciso modo di comportarsi di una comunità, gli usi, la tradizione, sia generica che specifica, cioè in circostanze particolari. Il minhag è una tradizione secondo l’alachà, è uno strumento che ciascuna comunità possiede per conservare e mantenere viva, nel tempo e in ogni situazione, la propria diversità. I minhaghim, per generazioni, hanno guidato, identificato e conservato, nel tempo e nello spazio, le diverse comunità di ebrei nella diaspora; la loro importanza e influenza sono tali da rendere cogenti regole specifiche e locali. Il fatto che le comunità ebraiche si siano preservate nel corso dei secoli, sino ad oggi, e desiderino continuare a mantenere viva la tradizione, senza opporsi né sovrapporsi le une alle altre in un clima di armoniosa convivenza, dimostra con forte evidenza che la diversità nell’ebraismo è un valore, che qualifica, specializza e rende felici coloro che la praticano. Si pensi, ad esempio, al ghetto di Roma che, nonostante la dimensione limitata, ospitava ben cinque Scole (o sinagoghe) ciascuna propria di una tradizione: la Scola Spagnola, la Scola Levantina, la Scola Italiana, la Scola Nova, la Scola Siciliana; nessuna di queste ha messo in discussione e ostacolato desiderio e diritto, proprio e altrui, di mantenere vive le diverse abitudini. Numerosi sono gli esempi di minhaghim. Essi rappresentano senza dubbio essenza, specificità, elemento di coesione, caratteristica peculiare, nonché ricchezza e desiderio di una particolare comunità di continuare ad essere e comportarsi secondo la consolidata tradizione dei padri. Divieto e repressione di tradizioni e usi consolidati non solo crea sconcerto, disappunto, malcontento e sofferenza, ma porta all’impoverimento della conoscenza, a vantaggio di omologazione e uniformità e a discapito della diversità. Così il recente caso del divieto delle ciambellette romane di Pesach[1], proibizione che provoca reazioni di indignazione e protesta da parte degli ebrei romani, da sempre produttori, in casa propria, di ciambellette. Il cuore del problema, secondo l’autorevole opinione di Rav Amar, accolto gioco forza dalla comunità, è il sospetto di un uso sbagliato della farina, che può produrre chametz. [2] Se la domanda è legittima, il dubbio di un uso improprio della farina avrebbe potuto dare corso a discussioni, risposte e indicazioni differenti: invece, l’azione di divieto, in base al sospetto, prevale violentemente sulla tradizione, antica e consolidata. Agire sulla base del sospetto è problematico; sono numerose le indicazioni contro il sospetto e la sua diffusione [3], che poi, se non è oggetto di rigorosa verifica, si potrebbe intendere come una maldicenza. Reclamiamo affinché il sospetto di un uso improprio della farina non dia come esito il divieto della tradizione (applicato con l’imposizione di autorità), ma segni l’inizio di una nuova epoca di insegnamento per il ripristino delle tradizioni. Riteniamo sia importante difendere usi, tradizioni, minhagim secolari, che fanno degli ebrei comunità uniche al mondo; salvaguardare conoscenza e tradizioni da conformismo, omologazione, modernizzazione tecnologica e culturale, come ad esempio i prodotti alimentari industrializzati. Ad esempio si aprano forni controllati dalla comunità e si controlli l’attività delle donne, come si faceva fino a qualche anno fa; ad esempio si insegni pubblicamente l’uso corretto della farina, invitando altre autorità, anche straniere, a partecipare; ad esempio si eviti di delegare il sapere a pochi individui, personalità terze, lontane, estranee, benché autorevoli e si tuteli diversità, identità che distinguono la comunità romana, salvaguardandone la conoscenza (che è insieme sapere ed esperienza), diffusa e popolare. D’altra parte è frequente che la conoscenza tradizionale locale offra risposte a problemi specifici. Ad esempio è da più parte raccomandato il consumo di insetti al posto della carne, per ragioni ecologiche ed economiche, per contribuire a ridurre la fame nel mondo, per evitare lo sfruttamento dei terreni agricoli e la produzione di gas serra causati dall’allevamento del bestiame, per contenere l’uso degli allevamenti intensivi e la sofferenza degli animali. L’ONU, oltre a battersi perché l’alimentazione tradizionale non venga abbandonata, ha cominciato a farsi promotrice di una campagna di informazione perché anche i paesi più sviluppati si convertano a questa fonte di proteine a buon mercato, sana e rispettosa per l’ambiente. E’ a dire poco sorprendente che, fra gli insetti, considerati generalmente cibo non ammesso[4], alcuni sono permessi [5] e che comunità marocchine e yemenite conservino antiche tradizioni riguardo insetti kasher[6]. Sarebbe opportuno studiare e ricercare ogni traccia e documento, scritto e orale, per ripristinare, attraverso l’insegnamento, quelle preziose tradizioni. Un precedente importante, ben documentato, riguarda la salvaguardia della tradizione locale di Ferrara di mangiare lo storione[7], nella quale è interessante la modalità della decisione: il rabbino su una questione così delicata, non si assume la responsabilità di decidere sulla base della sua personale esperienza ed autorità ma si confronta con altri eminenti rabbini. Ciò dimostra l’importanza della discussione quando si tratta di prendere decisioni che coinvolgono interessi collettivi. La seconda osservazione riguarda la scelta di non contraddire una tradizione consolidata: se quella locale di Ferrara era di mangiare lo storione, era chiaro che il divieto avrebbe causato ai ferraresi notevoli problemi, anche di ordine economico; d’altra parte esiste il principio talmudico secondo cui “Non si impone al pubblico un decreto che esso non possa sopportare.”. La terza osservazione riguarda il fatto che la tradizione non può essere contestata o modificata a causa di un uso diverso di un’altra comunità, anche se le due comunità si trovano a pochi chilometri di distanza. L’importanza e la vitalità di un Minhag, d’altra parte è fondamentale, e finché e possibile va ripristinata se non entra in conflitto con la legge. Lo Shulchan Aruk stabilisce[8] che è proibito mangiare specie di uccelli la cui identificazione sia dubbia, a meno che non ci sia una stabile tradizione che lo riconosca come kasher. Al contrario, se nell’uso della comunità un animale elencato come permesso è invece proibito, si deve seguire la tradizione locale “cibi permessi che alcuni usano vietare, non è lecito permetterli davanti a costoro” . [9] Vietare o reprimere l’uso delle ciambellete e delle cavallette, a causa del sospetto e senza alcun tentativo di chiarificazione e insegnamento, è violazione dei diritti umani e di varie Convenzioni Internazionali, sottoscritte anche dall’Italia: Convenzione sulla Biodiversità, art.8j[10]; Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, artt.1,2[11]; Convenzione per la tutela della diversità culturale; Dichiarazione Universale dei Popoli Indigeni, Partre II, articoli 12, 13, 14[12] ; Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, Costituzione Italiana e altri. Le Istituzioni ebraiche hanno sbagliato a reprimere l’uso tradizionale di ciambellette e cavallette. Tenendo conto del fatto che nell'ebrasimo non esistono gerachie, dovrebbero discutere e insegnare affinché queste diventino parte integrante delle tradizioni locale e del minhag e affinché antiche tradizioni, usi, minhagim, nel tempo dimenticati omessi e vietati, siano ripristinati e certificati. Gherush92 Comitato per i Diritti Umani Leggi gli altri articoli [1] Il fatto: Il rabbino Ronnie Canarutto, attivo a Roma, si rivolge, di sua iniziativa, direttamente a Rav Amar, rabbino capo sefardita di Israele e Rishon LeZion, facendogli presente che gli ebrei romani non sanno usare adeguatamente la farina per produrre in casa le ciambellette di pesach e chiedendo istruzioni. La risposta di Rav Amar è un ordine scritto, perentorio, rivolto al rabbino capo di Roma, di sospendere immediatamente la vendita della farina, per le motivazioni esposte nell’interrogazione di Canarutto. I rabbini del Beth Din discutono con i dirigenti comunitari e arrivano alla conclusione che, malgrado la loro differente valutazione, non si può andare contro l’ordine di Rav Amar. In tempi rapidissimi si vieta la vendita della farina kasher le pesach al dettaglio, che viene ritirata dal mercato romano; una parte di essa è destinata ad un noto e controllato forno romano per produrre dolci per pesach; il resto alla chavorà che produce ciambellette a prezzi calmierati. [2] La proibizione di produrre chamez e le regole per il corretto uso della farina si trovano in Schulchan aruk, Or hachaim, cap. 442. [3] a partire dal Talmud Berachot 31b. [4] “Ogni brulicante volatile, che cammina come i quadrupedi, è cosa abominevole per voi.” Vaikrà 11,20. Secondo Rashi si tratta di insetti come le mosche, vespe, bachi e cavallette. Rabbi D.Z. Hoffmann fa notare che tutti gli insetti hanno sei zampe e non quattro. Spiega che si deve intendere che quattro zampe servono per deambulare, le altre due solo per saltare. [5] “Ma potrete mangiare questi tra tutti i brulicanti volatili, che camminano come i quadrupedi: quelli che hanno gambe più alte delle altre con cui saltare sulla terra. Questi potrete mangiar tra di essi: la locusta nelle sue varie specie e il sol’am nelle sue varie specie e il chargol nelle sue varie specie e il grillo nelle sue varie specie; ma ogni altro volatile che cammina come i quadrupedi è cosa abominevole per voi.” Vaikrà 11, 21-23. Su 21 questi insetti hanno due zampe articolate, come il ginocchio umano, la cui articolazione è più alta del corpo dell’insetto quando esso è a riposo. Usa queste potenti zampe per lanciarsi dal suolo quando salta o si invola. [6] Le regole per il corretto uso delle cavallette si trovano in ... . [7] La kasherut dello storione, come di altri pesci affini, è tanto controversa che, in tempi recenti, la tendenza è stata quella di proibirne il consumo per la difficoltà di distinguere tra specie permesse e proibite. Tuttavia Rabbi Yitzchak Lampronti, rabbino di Ferrara, chiamato a pronunciarsi su due diversi tipi di storione, risolve il caso diversamente, come egli stesso racconta nel Pachad Yitzchak, enciclopedia talmudico-alachica: “Qui a Ferrara, nell’anno 5472 (1712), (…)il rabbino Mosè della Vida mi fece pervenire due pesci, l’uno denominato storione e l’altro copese chiedendomi perché lo storione venisse mangiato mentre il copese no. Io quindi li controllai entrambi (…), e trovai tutti i segni attestanti la loro purezza.(…) Nonostante ciò. Non osai dichiararli permessi sulla base della mia sola opinione (…). Presentai dunque il problema davanti agli altri ecc.mi rabbini della Yeshivà (…)tutti quanti rabbini assai più anziani di me (…) I suddetti rabbini mi risposero dicendo “ Non esiste a Ferrara, nel modo più assoluto, l’uso di vietare il copese”(…)Tutti loro furono quindi d’accordo che il copese è permesso, sia in base alla legge che in base all’usanza (…)” . Lampronti inoltre, in risposta a Rabbi A. Menachem Kohen Porto, secondo il quale a Cremona era proibito lo storione per il rischio che venisse confuso con un pesce simile non kasher, afferma “(…) Dal suddetto responso non c’è quindi da trarre alcuna prova riguardo all’uso di Ferrara.” [8] Yorè Deà, 82,2. [9] TB, Pessachim 50b-51; Shulchan Aruk, Yorè Deà 214,1-2. [10] Convenzione sulla diversità biologica; Ciascuna Parte contraente, nella misura del possibile e come appropriato …. Art. 8 j) sotto riserva della sua legislazione nazionale, rispetterà, preserverà e manterrà le conoscenze, le innovazioni e la prassi delle comunità indigene e locali che incarnano stili di vita tradizionali rilevanti per la conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica e favorirà la loro più ampia applicazione con l’approvazione ed il coinvolgimento dei detentori di tali conoscenze, innovazioni e prassi, incoraggiando un’equa ripartizione dei benefici derivanti dalla utilizzazione di tali conoscenze, innovazioni e prassi; [11] Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale Art. 2 Definizioni Ai fini della presente Convenzione: 1. per “patrimonio culturale immateriale” s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana. Ai fini della presente Convenzione, si terrà conto di tale patrimonio culturale immateriale unicamente nella misura in cui è compatibile con gli strumenti esistenti in materia di diritti umani e con le esigenze di rispetto reciproco fra comunità, gruppi e individui nonché di sviluppo sostenibile. … 3. Per “salvaguardia” s’intendono le misure volte a garantire la vitalità del patrimonio culturale immateriale, ivi compresa l’identificazione, la documentazione, la ricerca, la preservazione, la protezione, la promozione, la valorizzazione, la trasmissione, in particolare attraverso un’educazione formale e informale, come pure il ravvivamento dei vari aspetti di tale patrimonio culturale. [12] Dichiarazione Universale dei Popoli Indigeni, Articolo 12: 1. I popoli indigeni hanno il diritto di manifestare, praticare, sviluppare e insegnare le loro tradizioni spirituali e religiose, i loro costumi e cerimonie; hanno il diritto di preservare e di accedere ai propri siti religiosi e culturali, con la dovuta intimità; hanno il diritto di utilizzare e di mantenere il controllo dei propri oggetti cerimoniali… Articolo 13: 1. I popoli indigeni hanno il diritto di rivitalizzare, utilizzare, sviluppare e trasmettere alle future generazioni la loro storia, lingue, tradizioni orali, filosofia, sistemi di scrittura e letteratura, e di designare e poi mantenere le proprie designazioni di comunità, luoghi e persone. 2. Gli Stati dovranno adottare misure efficaci per garantire la tutela di questo diritto … |
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